Perchè “Carmina Arvalia”?

 

I FRATRES ARVALES

 

I Fratres Arvales (letteralmente “fratelli legati agli arva, terre lavorate dall’aratro, quindi coltivate, campi”) erano un antico collegio di dodici sacerdoti che si dedicava al culto della dea Dia (etim. di derivazione indeuropea *di-, *dįa- ‘luminoso’: *dia- ‘la luminosa”), poi identificata con Cerere, dea della terra, della natura, del cielo chiaro e quindi propizio, dei campi e delle messi.

Nel mese di maggio, presumibilmente nella seconda metà, gli Arvales eseguivano gli Ambarvalia, circuambulazioni eseguite a passo di danza lungo il perimetro degli arva della città e durante le quali veniva intonato il Carmen Arvale con lo scopo di rendere il territorio ivi compreso invalicabile sia da nemici esterni che da attacchi infettivi interni (malattie e pestilenze).

L’istituzione, di origine arcaica, fu restaurata da Augusto. In età imperiale il collegio degli Arvales, i cui acta incisi su pietra arrivano al III secolo d.C., ebbe grande prestigio e comprese membri dei ranghi sociali più elevati.

Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) ed Aulo Gellio (II sec. d.C.) riportano il mito secondo il quale i primi Arvales furono i dodici figli di Acca Larentia, leggendaria nutrice di Romolo, e del pastore etrusco Faustolo e sarebbero stati all’origine del collegio sacerdotale dei Fratres Arvales caratterizzato dall’uso di rituali e formulari arcaici. Molti particolari a noi noti dei loro riti, che presero a svolgersi in una località fissa, bosco sacro alla dea (il Lucus Deae Diae o Fratrum Arvalium si sviluppava in pendìo, dall’ansa fluviale della Magliana Vecchia risalendo la collina di Monte delle Piche), come l’esclusione dell’uso del ferro ed i primitivi vasi in terracotta, confermano l’antichità dell’istituzione.

 

 

IL CARMEN ARVALE o FRATRUM ARVALIUM

 

Con il termine Carmen, utilizzato nella civiltà romana arcaica, si indicava ogni formula solenne pronunciata ad alta voce ovvero caratterizzata dall’oralità, un testo arcaico, pre-letterario, appartenente alla sfera sacrale o rituale in genere, formulato per pregare una divinità, celebrare un sacrificio, accompagnare le operazini agricole, compiere atti di pubblica importanza.

Ai riti della vita agraria apparteneva il Carmen Fratrum Arvalium.

La forma testuale originaria, composta in epoca arcaica, tra il VI e il IV sec. a.C., non ci è pervenuta se non per frammenti difficilmente compresibili forse anche agli stessi sacerdoti romani di età augustea.

Durante alcuni scavi nel 1778, in territorio Vaticano, è stata rinvenuta su una tavoletta marmorea un’iscrizione, Carmen Arvale, datata 218 d.C., a testimonianza della già richiamata restaurazione del costume degli avi (mos maiorum) voluta proprio da Augusto.

Il testo a nostra disposizione, costruito con uno degli schemi metrici più antichi, il saturnio, l’unico verso indigeno romano-italico (gli altri furono di derivazione greca) è perciò quello pervenutoci nella redazione di epoca augustea, fine I sec. a.C.- inizio I sec. d.C..

Il carattere solenne e liturgico del componimento è accentuato dalla tripla ripetizione di ciascun verso. Il testo è caratterizzato dall’allitterazione (fu, fere), omoteleuto (neve, originariamente neue, lue) ed iterazione (ber ber). L’espressione conclusiva triumpe, che dava inizio alla danza detta tripudium, costituiva il momento culminante degli Ambarvalia, e veniva ripetuto cinque volte.

Trattasi di un’invocazione rivolta ai Lari, le divinità protrettrici del focolare inteso in senso ampio, e a Marte, protettore dei confini e dei campi, invocato probabilmente anche affinchè coinvolgesse nel suo intervento protettivo i Semoni, divinità di rango inferiore ed ausiliarie di Marte, tutrici della germinazione delle sementi (semen, seme).

 

E nos, Lases, iuvate (ter)

Neve lue rue, Marmar, sins incurrere in pleoris (ter)
Satur fu, fere Mars, limen sali, sta ber ber (ter)
Semunis alternei advocapit conctos (ter)
E nos, Marmor, iuvato (ter)
triumpe (quinque).

 

traducibile in:

 

Oh Lari aiutateci, (tre volte)

No pestilenza e rovina, o Marmar, non permettere che si abbattano su tutti  (tre volte)
Sii sazio, o feroce  Marte;  balza sulla soglia (sul confine); fermati  là, là (tre volte)
I Semoni,  a turno, li chiamerà in aiuto tutti (tre volte)
Oh, Marmor, aiutaci (tre volte)
Trionfo. (cinque volte).

 

Bibiliografia e sitografia:

- Giannotti G.F., Pennacini A., Società e Comunicazione Letteraria di Roma antica, vol I, Loescher Ed., To, 1981, pag. 33;

- Lana, A. Fellin, Civiltà letteraria di Roma Antica, vol. I, Ed. D’Anna, Me-Fi,  1983, pagg. 35-36;

- Garbarino G. con Cecchin S.A. e Fiocchi L., Letteratura Latina, vol 1, Paravia, To, 1991, pagg. 9-10;

- Giudici F., Wagner L., La Letteratura latina nella critica, Autori in Thema, Bo, 1992, pag. 118;

- Puliga D., a cura di, Antologia della poesia latina, in La Bibiloteca di Repubblica, Ed. speciale Einaudi, To, 2004, pag. 16;

- Cortella S., I culti nella Sabina di età romana, per l’Associazione Culturale Amici del Museo e Museo Civico Ercole Nardi di Poggio Mirteto (Ri),

- http://www.amicidelmuseo.com/sito/immagini/download/cultiinsabina.pdf